Ho finito ieri di leggere Sublime madre nostra, un bel testo pubblicato nel 2011 da Alberto Mario Banti dove l'autore esamina la genesi e le forme del discorso nazional-patriottico dal Risorgimento al fascismo, soffermandosi sul cruciale passaggio della Grande Guerra.
Banti sostiene che il mito della nazione e della patria - a mio parere una delle massime follie del XIX e XX secolo - si costruisce sulla base di tre assunzioni fondamentali, che permangono nelle diverse forme da esso assunte nel corso della storia italiana:
-La nazione come comunità di discendenza, come parentela, famiglia, sangue comune (si pensi all'Inno di Mameli: "Fratelli d'Italia"). Tema che ovviamente si accompagna a diffidenza e ostilità verso l'altro, il diverso.
- La nazione come comunità sacrificale, spesso accompagnata da tonalità religiose (siamo uniti dal sangue versato dai padri e dai fratelli morti per la patria. Talvolta, come accade nelle omelie di alcuni cappellani militari durante la prima guerra mondiale, il sacrificio è descritto come imitazione di Cristo: come Cristo accetta la morte per compiere la volontà del Padre -"sia fatta la tua volontà"-, così i fanti vanno incontro alla morte per compiere la volontà di quella nuova divinità, immanente, che è la Patria).
- La nazione come comunità sessuata, che prevede una rigida separazione dei ruoli: compito del maschio è donare il proprio corpo e la propria vita alla patria, compito della donna è formare figli per la patria e sopportare il dolore della perdita. Sullo sfondo l'ulteriore compito del maschio: difendere l'onore e la virtù della donna dalle offese nemiche.
Tutto ben riassunto, e profeticamente anticipato, nei versi manzoniani di Marzo 1821:
una d'arme, di lingua, d'altare
di memorie, di sangue e di cor.
Il libro è bello, ben documentato, ma non è questa la ragione per cui ne parlo. Nelle ultime pagine (L'Epilogo, sono sei pagine che riporto sotto) Banti allarga lo sguardo all'attualità e l'effetto è sconcertante.
Ripeto, il libro è del 2011, abbastanza recente, mi pare; eppure quante cose sono cambiate negli ultimi sette anni!
Banti constata con un certo sollievo che nel secondo dopoguerra il discorso nazionalistico è quasi scomparso dal dibattito politico (nonostante persistenze nella legislazione sulla cittadinanza, nei programmi scolastici e - soprattutto - nella retorica dello sport).
Si sofferma poi sullo sforzo di far rinascere un sentimento di appartenenza patriottica ad opera del Presidente Carlo Azeglio Ciampi, ed ecco Prodi e Melandri cantare entusiasti il "sanguinolento" Inno di Mameli ai mondiali 2006 («stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l'Italia chiamò», roba che "Deutschland über alles" - Germania sopra tutto, non sopra tutti come spesso viene mal tradotto - in confronto è una quisquilia); manca nella ricostruzione, perché ancora da venire, la retorica patriottica del presidente Napolitano.
A parere di Banti le intenzioni di Ciampi erano profondamente democratiche: la retorica della nazione mirava a "dare calore alle istituzioni della Repubblica, in modo da farle nuovamente considerare espressione di una coesa comunità nazional-patriottica". Ma soprattutto il senso profondo del rilancio dell'idea di nazione, che mobilitava il tradizionale apparato ideologico dell'unità di lingua, storia e stirpe, andava ricercato nel bisogno di contrastare il nazionalismo localistico-secessionistico della Lega.
Il guaio è che il localismo leghista era una cosa in fondo ridicola, paesana, incapace di trovare vere radici. Il peggio doveva venire.
Nel 2011 Banti non poteva immaginare che di quella retorica della patria comune, incautamente evocata da Ciampi, si sarebbe appropriata proprio la nuova Lega salviniana, ed eccoci al triste spettacolo del ritorno alla comunità del sangue, all'identità religiosa della nazione, al prima noi, alle nostre donne insidiate dalla marea nera dei migranti. Tutto tragicamente già visto, tutto tragicamente ritornante!
Ecco, per chi volesse leggerlo, l'Epilogo di Sublime madre nostra.
P.S. Su una sola cosa dissento da Banti: la polemica contro lo studio della Divina commedia: la Divina commedia va studiata, e non perché sia frutto del genio della "razza italica" ma perché è patrimonio dell'umanità, come i Dialoghi di Platone, le tragedie di Shakespeare, la Critica del Giudizio.
EPILOGO
Molti degli aspetti morfologici che strutturano il discorso nazionale continuano a vivere ancora tra il 1943 e il 1945 sia all'interno della Repubblica sociale italiana sia - in forme diverse - all'interno di varie formazioni partigiane. Tuttavia la fortissima identificazione tra regime fascista e discorso nazional-patriottico fa sì che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, i termini «nazione» e «patria» e i valori che sono loro associati vengano abbandonati dai protagonisti della vita pubblica italiana. Questa dinamica non è solo italiana; e non è solo dovuta agli scenari della guerra fredda e all'ispirazione sovranazionale che anima i principali partiti politici italiani (Dc e Pci). Quasi dovunque il nesso strettissimo che si è creato nei decenni precedenti tra ideologia nazional-patriottica e nazi-fascismo induce politici e pubblicisti di vario orientamento democratico a evitare per quanto possibile il riferimento all'universo valoriale del nazional-patriottismo.
E qui capitano due cose interessanti. In primo luogo, il senso di appartenenza nazionale non viene perso del tutto, poiché restano attivi frammenti rituali, simbolici e discorsivi centrati sull'idea di nazione che appartenevano alla vita pubblica precedente.
Intanto, per fare qualche esempio relativo all'Italia repubblicana, il diritto di cittadinanza continua a basarsi sui criteri parentali su cui si basava nel Regno d'Italia. [Si pensi al recente dibattito sullo ius soli, nota mia]
In secondo luogo il canone educativo, dalle scuole elementari fino alle superiori, è ancora centrato sulla preminenza della letteratura in lingua italiana, un'impostazione che deriva dal principio puramente nazional-patriottico secondo il quale c'è più da imparare dallo studio della Divina Commedia - anche se la si deve leggere in un italiano arcaico e col continuo ricorso alle note esplicative - di quanto si possa imparare dalla lettura di Guerra e pace, o dei Buddenbrook, o di Gita al faro, anche se sono tradotti in ottimo italiano corrente, perché la Divina Commedia sta sul «nostro» asse genealogico, mentre le altre opere no: il che induce a pensare che una qualche identità nazionale, legata alla cultura e alla letteratura, debba esistere per forza.
Infine, il lessico sportivo continua a valorizzare in modo parossistico le imprese dei «nostri» atleti.
Un esempio estremo di questo nazionalismo collaterale è dato dalle Olimpiadi di Roma del 1960, dove il desiderio di esibire al mondo l'immagine di un'Italia nuova è animato dal linguaggio del nazionalismo sportivo che, peraltro, è sempre molto vivo in questo tipo di competizioni. Anche in un contesto culturale generalmente piuttosto localistico come quello del tifo calcistico, si opera una sorta di miracolo (accuratamente costruito durante il fascismo, peraltro) : quando gioca la «Nazionale», gli stadi e i giornali sportivi si trasformano in uno dei contesti di massima persistenza e di massima valorizzazione dell'identità nazionale, col suono dell'inno di Mameli, il tripudio di bandiere tricolori e il confronto stereotipato tra il genio calcistico italiano e le modalità di approccio delle altre «scuole calcistiche» nazionali, la cui differenza è spesso fatta risalire al presunto effetto dei diversi «caratteri nazionali». L'apoteosi di questa retorica viene celebrata, per esempio, in occasione della vittoria italiana ai Mondiali di calcio di Spagna, del 1982, con la finale giocata sotto gli occhi del Presidente della Repubblica italiana, Pertini.
Ad ogni modo, se questi fenomeni sono importanti nel far sopravvivere frammenti di discorso nazionale, non animano il dibattito e lo scontro politico, all'interno del quale, almeno fino agli anni Novanta, solo occasionalmente e marginalmente ci si appella a «nazione» o «patria».
Questa è una tendenza che attraversa tutto l'Occidente democratico. Dovunque, nel secondo dopoguerra, il linguaggio nazional-patriottico diventa una sorta di repertorio d'archivio, trascurato dai principali protagonisti della vita politica, e perciò stesso a disposizione di soggetti marginali o anti-establishment che se ne vogliano impossessare.
E qui interviene il secondo fenomeno interessante, ovvero il recupero attivo del discorso nazional-patriottico, che comincia a prendere un'evidente consistenza dagli anni Sessanta quando, qua e là, si formano vari movimenti neo-nazionalisti: l'Eta nei Paesi Baschi; l'Ira in Irlanda; gruppi neo-nazionalisti in Corsica, Bretagna, Fiandre, Sud-Tirolo, e altri luoghi ancora. Sono movimenti molto diversi tra loro, ma non di rado inclini al recupero sia della morfologia discorsiva, sia della pratica del nazionalismo romantico, ricorso alla violenza compreso.
In questo quadro generale si inserisce anche il fenomeno neonazionalista delle varie formazioni che rivendicano un'identità nazionale all'una o all'altra delle regioni del Nord Italia, confluite poi nella Lega Nord. Il movimento leghista delle origini si caratterizza per un lessico neo-nazionalista (la nazione padana, di asserita, ed evidentemente infondata, derivazione celtica); per il tentativo di inventare tradizioni neo-nazionali (il rito dell'ampolla) ; per una certa disponibilità a ricorrere a un linguaggio violento. Rispetto alle connotazioni originarie, ben visibili ancora a metà degli anni Novanta, l'inclusione del partito nella coalizione politica di centro-destra ha indotto i suoi leader ad attenuare il ricorso alle parole d'ordine della nazione padana, dell'indipendenza e della secessione (anche se nessuno di questi momenti simbolici è stato esplicitamente sconfessato).
È in risposta alla preoccupazione suscitata dalla Lega e dalla minaccia di una possibile frattura dell'unità nazionale italiana che è rinato il dibattito sulla identità nazionale italiana. Ed è in risposta a quei pericoli che ha preso vita il più importante tentativo di rilancio istituzionale del senso di appartenenza a una comunità nazionale che abbia avuto luogo nel secondo dopoguerra, quello condotto con grande determinazione dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi tra 1999 e 2006. Le intenzioni che hanno mosso le campagne neo-patriottiche di Ciampi sono puramente democratiche: dare calore alle istituzioni della Repubblica, in modo da farle nuovamente considerare espressione di una coesa comunità nazional-patriottica.
Ma il ricorso a simboli, rituali, e discorsività classiche, che ha connotato questo tentativo, ha prodotto uno strano effetto: la nazione è stata presentata da Ciampi e dai suoi collaboratori di nuovo come una comunità di parentela, all'interno della quale i valori nazional-patriottici classici (la celebrazione della morte in battaglia, l'esaltazione delle forze armate, la commemorazione di eventi bellici significativi - dal Risorgimento, alla Grande Guerra, alla Resistenza -, la valorizzazione di simboli tipicamente nazionalisti come il Vittoriano o la Tomba del Milite Ignoto) hanno rilanciato un complesso discorsivo che sembra porsi in linea di continuità con l'universo simbolico del nazionalismo italiano come si è costruito dal Risorgimento al fascismo. Presentando in forma sintetica la ratio che ha guidato il neo-patriottismo ciampiano, uno stretto collaboratore del presidente, Paolo Peluffo, ha ricordato che gli elementi fondamentali che hanno orientato l'iniziativa neo-patriottica, consentendo di identificare la «nazione italiana», sono stati l'epos (la memoria collettiva), il logos (la lingua), l'ethos (l'insieme di valori), il ghenos (i «legami di sangue e parentela»), e il topos («un territorio iconizzato in una immagine simbolica della Patria»).
Si tratta di una definizione che ogni ideologo del nazionalismo otto-novecentesco avrebbe sottoscritto con trasporto: e nonostante sia una definizione che è in contrasto con i risultati della migliore ricerca scientifica recente, che sottolineano il carattere artificiale e manipolatorio del discorso nazionale, privo di ogni rapporto di necessità con un qualunque ghenos o topos originario, l'iniziativa ciampiana è stata accolta dai media con una sorta di entusiasmo liberatorio, come se il nazionalismo residuale alimentato nel secondo dopoguerra da frammenti di un discorso pregresso (leggi sulla cittadinanza, canone scolastico, retorica sportiva) trovasse finalmente in Ciampi un interprete in grado di controbattere le «invenzioni» neo-nazionaliste della Lega. Ma con ciò, vale la pena ripeterlo, il neo-patriottismo ciampiano non ha fatto altro che riproporre - con minime variazioni - il blocco discorsivo proprio del nazionalismo classico, come si è formato tra Risorgimento e fascismo.
Il caso dell'iniziativa ciampiana è particolarmente importante perché mostra le implicazioni contingenti e quelle strutturali che possono essere prodotte dal ricorso alla classica tradizione discorsiva nazional-patriottica. Dal punto di vista contingente ha creato strane situazioni. Cosi, per esempio, osservare leader del centro-sinistra italiano, come Romano Prodi o Giovanna Melandri, che in diretta Tv festeggiano la Nazionale italiana di calcio vittoriosa nei Mondiali del 2006, cantando con entusiasmo ciampiano un inno che esalta il nazionalismo sacrificale, come Fratelli d'Italia («stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte»), sarà risultato un po' desituante per un bel pezzo del loro elettorato, più aduso a commuoversi alle note di Blowing in the Wind o Imagine, che alle figure sanguinolente del nazionalismo mortuario di epoca romantica. Viceversa, sembra che Ignazio La Russa si trovi perfettamente a suo agio nel celebrare l'esercito italiano, l'Anniversario della vittoria, o i sacrifici che i soldati italiani all'estero compiono, a prezzo a volte della loro vita: e son convinto che una buona parte del suo elettorato non trova niente di strano nelle sue iniziative.
Dal punto di vista strutturale l'iniziativa ciampiana, e le modalità attraverso le quali si è sviluppata, suggeriscono che le parole-simbolo, i sistemi discorsivi, i rituali che strutturano l'identità nazionale si distanziano con difficoltà dagli archivi memoriali ai quali appartengono; e quindi conservano latente l'intera complessità del discorso-matrice che li ha foggiati. Coloro che - con qualunque intenzione, anche la più democratica - si preoccupano adesso della questione dell'identità nazionale, dovrebbero essere consapevoli che «nazione» e «patria» sono due termini che - quasi per riflesso condizionato - si portano con sé una serie di formazioni valoriali specifiche che inducono a pensare la nazione come parentela, come discendenza di sangue, come memoria storica esclusiva e selettiva, come valorizzazione di narrazioni belliciste e maschiliste.
Davvero si ritiene che i cittadini e le cittadine della Repubblica italiana abbiano bisogno di questo sistema di valori? Davvero si ritiene che questa sia la migliore attrezzatura che la comunità repubblicana può mettere in campo per affrontare le sfide dell'emigrazione, della globalizzazione, del multiculturalismo? La domanda è tanto più necessaria perché si fonda su un'acquisizione fondamentale dalla ricerca scientifica, troppo spesso dimenticata nel dibattito corrente: ovvero che l'«identità nazionale» (italiana, ma anche padana, irlandese, croata, rumena, o quel che si vuole) non è una condanna; non è un dato di natura; non è l'unico modo possibile, di concepire le comunità politiche; ma è, appunto, un modo artificiale, storicamente determinato, carico di specifiche narrazioni e di particolari gerarchie di valori. Per questo, invece di continuare a dibattere sul se la Repubblica abbia bisogno di un'identità nazionale forte, sarebbe piuttosto opportuno discutere sul se - in assoluto - abbia bisogno di un'identità «nazionale».