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Questo è un blog pubblico, tutti possono leggerlo e inserire commenti,
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Non ci credevo.
In gennaio, quando i giornali riportavano gli allarmi americani per un'imminente aggressione russa all'Ucraina, in un post FB scrivevo che non credevo affatto a questo pericolo e che mi sembrava un procurato allarme.
Poi il 24 febbraio l'invasione cominciava e dichiaravo sul solito FB di essere un perfetto idiota.
Adesso, dopo 60 giorni di guerra, voglio cercare di capire perché mi sono sbagliato così clamorosamente.
Cosa volete farci, su Facebook e in rete anche gli idioti hanno diritto di parola.
Lo dico subito: sono un néné e trovo la cosa complessa. Se avete voglia continuate a leggere: sarò lungo, anche più al solito.
Perché non ci credevo?
La risposta è molto semplice: mi sembrava impossibile, contraddittorio. Questa è una guerra di conquista, una guerra da XX, se non da XIX, secolo. Una guerra fatta per conquistare qualche decina o centinaio di chilometri di terreno.
In un mondo globalizzato, dove le frontiere sono permeabili, merci e uomini si muovono liberamente, dove chi sta oltre il confine parla più o meno lo stesso pessimo inglese, veste allo stesso modo, desidera più o meno le stesse cose non riuscivo a credere che potesse accadere una guerra di questo tipo. Una guerra in cui, a proposito dei russi, si rispolvera la conferenza di Monaco, ma a me viene in mente ancor più la redenzione di Trento e Trieste, roba da prima, nemmeno seconda, guerra mondiale. Una guerra in cui, a proposito degli ucraini, ho letto articoli in cui si rispolvera la buonanima di Mazzini.
Siamo fuori dal mondo, e dal tempo!
A me gli annunci di guerra sembravano un wishful thinking americano, alla ricerca dell'occasione per regolare i conti con la Russia: una guerra "chiamata". Magari lo facessero, sistemiamo la cosa una volta per tutte!
Le guerre oggi.
Ho visto tante guerre negli ultimo trent'anni: Kosovo, Iraq 1 e 2, Afghanistan, Siria. Per non parlare dell'Africa, o dello Yemen. Non preoccupatevi: non mi metto a fare i conti dei civili dilaniati dalle bombe. È storia e politica, è successo di peggio.
Il punto è che erano guerre completamente diverse: guerre mosse da coalizioni internazionali per "difendere" un popolo in lotta per la libertà (Kosovo, Siria) o per portare libertà e democrazia in paesi oppressi da regimi canaglieschi e pericolosi per l'ordine mondiale (Iraq, Afghanistan).
Dal tono di questo post è facile capire che non ci credo: se in qualsiasi paese europeo una forza separatista avesse fatto anche solo la metà degli atti di violenza compiuti dall'UCK in Kosovo (o, per dirla tutta, dai dimostranti in piazza Maidan nel 2014) nessuno avrebbe protestato per la repressione; anzi, si sarebbe gridato alla sovversione e al terrorismo. Almeno, io la vedo così.
La Siria poi mi sembra uno dei peggiori crimini degli ultimi secoli: una "primavera" incoraggiata e sostenuta dall'occidente, infiltrata dall'estremismo islamico, appoggiata solo a metà, perché non perdesse, abbandonata quando rischiava di vincere, purché la guerra andasse avanti senza vinti né vincitori. Tutto sulla pelle del popolo siriano. E i profughi buttati nei campi libanesi e respinti dai confini della fortezza europea. Semplicemente disgustoso.
E non parliamo delle armi chimiche di Hussein.
Ma c'era uno spazio vuoto da riempire.
Osservatori malevoli e sinistri hanno sostenuto che queste guerre fossero dovute a interessi economici: petrolio, uranio, coltan...
Non credo nemmeno a questa narrazione. Nella nostra sensibilità occidentale qualche vantaggio economico non basta più a spiegare una guerra, e le materie prime si strappano molto più facilmente con trattati commerciali e qualche milione di dollari.
Io (io, io, io, fottiti... Eppure la vedo così) credo che l'uomo occidentale, che da mezzo millennio è padrone del mondo, si sia assunto una missione: quella del progresso tecnologico-scientifico. Il cammello del mio vecchio amico Federico.
È semplicemente inammissibile che un popolo, una nazione, voglia continuare a vivere come è vissuto negli ultimi mille anni, senza rincorrere l'ultimo telefonino, l'ultimo ritrovato della medicina, l'ultimo social.
Che non voglia capire che ci sono bisogni di cui non ha nemmeno il minimo presagio, ma devono essere conosciuti e, una volta conosciuti, saranno irrinunciabili.
Senza accettare la triste notizia che Dio è morto e che l'umanità è gettata in nuove sfide: sempre più cose, sempre più informazioni, sempre più successo, sempre più partner, sempre più chiacchiere. Purché sia nuovo e di più.
E, questo è davvero difficile da digerire, senza riconoscere i diritti di minoranze etniche, sessuali ecc.
Per chi resta fuori da tutto questo è guerra, guerra giusta e santa.
Le cose sono ancora più complicate (scusate l'espressione): non possiamo accettare che altri popoli, tirati dentro questa sfida, ci sopravanzino. In questa santa guerra dobbiamo mantenere il primato e questioni di civiltà si incrociano con questioni di egemonia, di nazione ecc. Passato e futuro si affrontano. Ci ritornerò.
Dunque guerra per democrazia, libertà, civiltà.
Ma una guerra per cento chilometri di confine, chi se lo sarebbe mai aspettato...
Eppure è successo!
Ragion sufficiente
Il mio amato Goffredo Ludovico sosteneva che "non accade mai niente senza che vi sia una ragione determinante [sufficiente], vale a dire qualcosa che possa servire a rendere ragione a priori del perché una data cosa è esistente."
L'aggressione russa all'Ucraina è ingiustificabile, violenta, orribile.
Ma deve pur esserci una spiegazione (non una giustificazione) per una guerra che sembra non avere senso né spaziale né temporale, per il trasferimento di una guerra di conquista, ottocentesca, nel ventunesimo secolo.
Forse l'innata ferocia del popolo russo? Forse la follia di un dittatore? Ancora una volta non ci credo.
Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell'Unione Sovietica il mondo è cambiato radicalmente. L'Impero del Male, il nemico con cui ci era confrontati e a cui ci si era opposti per quasi mezzo secolo, che tuttavia incuteva rispetto e obbligava alla prudenza non esisteva più.
Al suo posto nasceva uno stato nazionale, la Federazione Russa. Era uno stato esausto per le contraddizioni del socialismo reale, per la corsa agli armamenti dell'età reaganiana, per la guerra afghana (e qui si potrebbe aprire un altro discorso lunghissimo, ma lasciamo perdere).
Terminata con un fallimento la missione universalistica di paese alfiere del socialismo (con i suoi slanci ideali e gli orrori fatti di gulag, purghe, carestie. Eppure ci abbiamo creduto in tanti, dovrebbe essere obbligatoria la lettura di Vasilij Grossman) la Russia ferita e umiliata si ricompattava intorno a quello che le rimaneva: l'identità nazionale (l'idea di nazione, una delle idee più stupide uscite dal XIX secolo), la memoria della grandezza militare (Napoleone, Hitler) che da sempre è stata uno degli elementi fondanti l'identità russa.
Intanto, grazie alle notevoli risorse naturali, innanzitutto gas e petrolio, la società russa cambiava. Nasceva un ceto medio piuttosto benestante, elementi di vita occidentale si diffondevano in Russia, arrivavano internet e facebook, McDonald e blue jeans, musica e film. Turisti russi visitavano i paesi occidentali e ritornavano in patria: io ne ho conosciuti alcuni, a una famiglia russa ho venduto la mia vecchia casa: persone assolutamente "normali" secondo il metro occidentale, che vestono meglio di me, parlano un inglese migliore del mio, desiderano pace e benessere.
Bastava avere pazienza, evitare esibizioni muscolari, e la globalizzazione avrebbe fatto il suo corso, la vittoria sarebbe stata completa, la società russa si sarebbe liberata da aspetti dispotici e militaristici ormai anacronistici: il modo di vita occidentale, per quanto sciocco, è inarrestabile. La vita a Mosca non sarebbe stata molto diversa dalla vita a Roma o Parigi, con un po' di vodka e matrioske in più, che non guasta.
Invece... l'Occidente (e intendo soprattutto Stati Uniti e NATO) ha continuato a considerare la Russia come un nemico da isolare e di cui diffidare. Un nemico in ginocchio, con un'economia in affanno, un esercito dotato di armi obsolete, su cui, non fosse per l'eredità nucleare sovietica e il posto fisso in consiglio di sicurezza dell'ONU, si potrebbe maramaldeggiare.
Qualcuno mi dirà: "Ma sei matto?", "Chi, noi?".
Guardate, da anni il mio giornale principale, che leggo ogni mattina sul telefonino, è La Stampa. È un giornale serio, so cosa aspettarmi e come interpretare, insomma, mi trovo bene. Una delle cose che poco mi piacciono di questo giornale è l'inossidabile atlantismo: Russia e Cina vengono spesso definiti "l'avversario", al direttore Giannini un paio di volte è sfuggito "il nemico", e questo prima della guerra in Ucraina. Perché mai?
L'Occidente diffida della Russia, ma la Russia diffida dell'Occidente, come darle torto? I russi ricordano l'invasione francese, il cordone sanitario, l'invasione tedesca, la guerra fredda. Chiedono garanzie e non le ottengono.
Hanno digerito l'unificazione tedesca con l'ingresso della Germania Est nella NATO, la dissoluzione della Jugoslavia, l'allargamento della NATO a Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria nel 1999, a Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia nel 2004, ad Albania e Croazia nel 2009, al Montenegro nel 2017, alla Macedonia del Nord nel 2020.
Si può obiettare che tutti questi sono paesi sovrani e hanno chiesto liberamente di aderire al Trattato: è vero. Ma io ritengo che questo allargamento andasse scoraggiato, non accolto con entusiasmo.
Quando l'Unione Sovietica era il nemico, questi erano paesi "satelliti" e il mondo era diviso in sfere di influenza abbiamo assistito senza muovere un dito all'invasione dell'Ungheria nel 1956 e della Cecoslovacchia nel 1968.
Adesso che questi sono paesi liberi e sovrani e che non c'è (non c'era fino al 24 febbraio) motivo di considerare la Russia il nemico, perché affondare il coltello in quello che la Russia considera una specie di cintura di sicurezza e portare l'alleanza atlantica fino ai suoi confini?
Ma, si può obiettare, l'Ucraina non era membro della NATO e non erano in corso trattative per la sua entrata nell'alleanza. Vero anche questo, ma, a parte che la storia dell'Ucraina dopo il 2004 e, ancor più, dopo il 2014 è complicatissima e non riesco a capirla, quando la Russia ha chiesto garanzie le è stato risposto a muso duro che è l'alleanza atlantica a scegliere i propri membri, non la Russia. E dal 2014 ufficiali inglesi e americani addestravano l'esercito ucraino (e venivano fornite armi). Non esattamente rassicurante.
Ripeto, l'aggressione di uno stato sovrano è un atto criminale e questa guerra ha un andamento molto feroce. Il problema non è giustificarla e dare giudizi morali.
Il problema, purtroppo, è che la guerra è una delle possibilità umane. Quando sento dire che la guerra è inumana e bestiale fatico a trattenere le risate: non c'è nulla più umano della guerra, l'uomo è l'unico animale sul nostro pianeta a fare la guerra. Gli altri animali possono sbranarsi, distruggersi per controllare le risorse di un territorio, ma non conosco altri animali che si organizzino in stati, costituiscano eserciti, facciano politica di potenza e conquista, escogitino armi sempre nuove e più potenti.
Per quarant'anni ho insegnato storia nei licei e la maggior parte delle mie ore di lezione trattavano di guerre, non sto a fare l'elenco: dimenticherei inevitabilmente qualcosa.
La Russia andava rassicurata, coinvolta in progetti comuni: questa sarebbe stata una politica ragionevole. Metterla nell'angolo, fare scelte politiche e militari che tutti sapevamo avrebbe percepito come ostili, è stata una follia. O forse è stato molto razionale: fa parte del grande gioco dell'egemonia mondiale, ma è un gioco molto pericoloso (e immorale).
L'analogia dell'energumeno
Leggo nei giornali e sento alla radio (grazie a Dio mi sono liberato dalla televisione da oltre dieci anni e non devo subire i petulanti talk show) che i nemici della complessità scuotono le spalle infastiditi di fronte ad argomenti di questo tipo e rispondono con una semplice analogia, la chiamerò l'analogia dell'energumeno.
Più o meno suona così: se vedi un uomo grosso e cattivo picchiare un piccoletto cosa fai? Resti a guardare? Stai lì a interrogarti sulle cause recenti e remote? L'unico comportamento decente è aiutare il piccolino, poi si vedrà.
A parte che se voi siete irritati dalla parola complessità io sono irritato da queste semplificazioni che vogliono comprendere la storia universale riducendola a una rissa da bar.
A parte, ancora più importante, che una persona decente si mette in mezzo e separa i contendenti, non sta nell'angolo gettando al piccolino temperini e biglie incitandolo a continuare la lite fino alla morte, probabilmente sua.
A parte tutto questo, con grande fastidio, voglio provare a scendere su questo terreno e rispondere con un'analogia appena un pochino più complessa: scusate, è un vizio. Comunque è facile facile, non si fa fatica.
Immaginate di essere un insegnante che deve gestire una classe difficile. C'è un alunno grande e grosso, ripetente, un po' rozzo e pieno di risentimenti più o meno giustificati (la Russia) e ci sono tanti altri alunni piccolini e vivaci, pieni di rancore verso l'alunno grande e grosso perché il padre (l'Unione Sovietica, per la Polonia certamente anche l'impero zarista) ha fatto loro dei torti. Il grande e grosso si trattiene, ma prima o poi esploderà.
Cosa dovrebbe fare un bravo insegnante?
Mettere il gigante in un angolo, sgridarlo per ogni cosa che ha fatto e non ha fatto, incoraggiare i piccolini a insultarlo e scherzarlo (come dicevamo da bambini: mamma, mi scherza)?
Oppure dovrebbe mettere un freno al risentimento dei piccoli e dedicarsi al grande e grosso, cercare di conquistarlo all'amore per il sapere, per la buona convivenza, per il rispetto di regole condivise?
A me pare che il giusto comportamento sia il secondo e, per uscire di metafora, che un Occidente dotato di buon senso avrebbe dovuto porgere la mano alla Russia del 1991 che usciva dalla tragedia - tutta occidentale, Marx era tedesco, il socialismo è una delle facce dell'Occidente - del socialismo reale, o, con più lungimiranza, già all'Unione Sovietica di Gorbaciov nel 1985.
La scelta invece è stata approfittare della debolezza del vecchio nemico e gettarsi a fagocitarne una dopo l'altra le zone di influenza. Schadenfreude, dicono i tedeschi.
Mi direte che io non ho imparato niente da Monaco, vi rispondo che voi non avete imparato niente da Versailles.
Ancora della ragion sufficiente.
Giuro che non voglio fare il furbo: se c'è una spiegazione del comportamento russo, così ci deve essere una ragione sufficiente per lo scriteriato Drang nach Osten occidentale degli ultimi trent'anni; ogni mutamento ha una causa e vogliamo cercare di comprendere. L'innocenza del divenire, diceva Benedetto.
Credo che ci siano due ragioni fondamentali.
La prima è inseparabile dalla natura umana e struttura portante della storia universale: l'horror vacui. Dove si apre uno spazio vuoto nasce l'appetito di riempirlo, ma il vuoto non è mai completamente vuoto, l'uomo è testardo e questa coazione a riempire ha prodotto lutti infiniti. Finché l'uomo sarà uomo e non supererà l'umano andrà così: Federico aiutami tu!
La seconda è meno metafisica ed è una costante della storia europea degli ultimi due secoli: la diffidenza nei confronti della Russia, la russofobia.
Quando Pietro, tagliando barbe e teste, prese la Russia, la trascinò a occidente e la affacciò sui mari la combriccola degli stati europei, che da mille anni si sbranavano in guerre feroci, si trovò di fronte a un intruso inquietante. Un paese immenso, disteso tra Asia e Europa, quasi sconosciuto, si presentava sulla scena delle beghe politiche e religiose europee.
Il Settecento è stato un secolo leggero, un secolo di buone maniere, fatto di guerre e guerricciuole di successione al termine delle quali sovrani e diplomatici trovavano soluzioni tra gentiluomini (va be', semplifico moltissimo: a qualcuno forse farà piacere. Andate a dirlo alle centinaia di migliaia di contadini presi con la forza e fatti carne da cannone. E la guerra dei 7 anni è stata la prima guerra veramente mondiale). Comunque, prima che le masse irrompessero nella storia e il 1789 aprisse la grande tragedia della modernità, nei rapporti internazionali la cortesia era la regola, e cortesia impone di accogliere con un sorriso i nuovi venuti, specie se un po' esotici e barbarici. Caterina corrispondeva con le corti europee, con Diderot, Voltaire, D'Alembert. E nulla impediva a Austria, Prussia e Russia di mettersi d'accordo per fare un sol boccone della vecchia, gloriosa e decadente Polonia, sempre comme il faut.
Ma quando la grande armata francese, che aveva conquistato un continente, si scioglieva tra le fiamme di Mosca ed era ricacciata ad ovest dalle orde cosacche le cose cambiavano.
L'intruso era una grande potenza, pericolosa e minacciosa: la maggiore potenza militare di terra (io non lo credo proprio, Napoleone era stato sconfitto dal fuoco e dalla neve, dal ghiaccio e dal fango, dalle distanze e dalla sconfinata ambizione). Per il Regno Unito era inammissibile, la balena non poteva tollerare l'orso. Tanto più che si temeva che la Russia dai suoi territori asiatici potesse minacciare l'India: ovvio, gli inglesi in India sono cosa normale, i Russi in India una bestemmia.
L'Ottocento è percorso dalla preoccupazione che La Russia, approfittando dell'agonia dell'Impero Ottomano, potesse troppo rafforzarsi e soprattutto, un altro spettro aggirantesi per l'Europa, potesse affacciarsi sul Mediterraneo.
Le cose sono complesse e, inevitabilmente, semplifico. Si può obbiettare e rispondere alle obbiezioni, ma nelle linee generali credo di non sbagliare.
Quando, nel 1853, la Russia (in concorrenza con la Francia) si erge a protettrice dei cristiani sottoposti al dominio turco e invade Moldavia e Valacchia, Francia e Inghilterra entrano in allarme (e presto arriva l'aiuto di Cavour): meglio i turchi dei russi. Ed è la guerra di Crimea: vi dice qualcosa? Questa guerra si studia nei nostri libri di storia. La Russia è sconfitta e umiliata (E si apre un periodo di grandi riforme e cambiamenti. Delitto e castigo).
La questione si ripropone nel 1877 (intanto sono cambiate moltissime cose: l'impero francese è crollato a Sedan, è nato il Reich tedesco, è nato il regno d'Italia, Bismarck cerca di tenere insieme Germania, Russia, Austria): in Bulgaria si svolgono moti antiturchi, l'Impero Ottomano è convinto che siano sostenuti dai russi e reprime con estrema durezza (mai sentito anche questo?). Ed è la guerra russo-turca del 1877-1878.
Nei nostri libri di storia le si dedica al massimo una mezza riga. Per i Russi è un episodio importantissimo, l'assedio di Pleven e l'avanzata fino alle porte di Istanbul fanno parte dell'epos russo, ne parlano romanzi abbastanza belli.
Questa volta la Russia si muove con cautela, cerca accordi e contatti con Inghilterra, Francia, Austria.
Ma la pace di Santo Stefano è inaccettabile per Gran Bretagna e Francia: una grande Bulgaria alleata della Russia e affacciata sull'Egeo non si può vedere.
In questa carta geografica satirica del 1877 si vede bene come la minaccia della piovra russa, pronta a stritolare l'Europa, non sia un timore di oggi.
Il Mediterraneo è cosa di Francia, Italia e Regno Unito (che presidia Gibilterra, Malta e, d'ora in poi, Cipro). Il Congresso di Berlino ridimensiona Bulgaria e ambizioni russe: una nuova umiliazione.
E intanto si gioca la partita asiatica (intrecciata con quella balcanica: da Suez passa la rotta per l'India, e una Russia potenza mediterranea la minaccia): chi legge Il grande gioco di Peter Hopkirk può rendersi conto di quanto qualsiasi mossa russa sia stata vista da stato maggiore e diplomazia inglese come una minaccia all'India inglese, e di come tali sospetti siano stati spesso ingiustificati e abbiano alimentato una progressione di atti ostili e violenza.
Ci voleva Tsushima (e la malcelata simpatia delle diplomazie occidentali per il Giappone, e la rivoluzione del 1905) perché si scoprisse che la Russia non era una minaccia, ed è la Triplice Intesa.
Ma con il 1917 ricomincia tutto: allo spettro russo si somma lo spettro del comunismo. La Russia sovietica e traditrice è circondata da una cintura di sicurezza.
Nulla è più lontano da me dal voler giustificare la dittatura staliniana (l'ho detto, dovrebbe essere obbligatorio leggere Grossman), ma credo che l'isolamento dell'Unione Sovietica l'abbia favorita.
Citare la Conferenza di Monaco è diventato un passatempo per qualsiasi occasione, ma io ricordo di avere letto (non so più dove, ho letto parecchio e dimenticato di più, credo di poterlo ritrovare) che nel 1938 Stalin offrì di mettere a disposizione diverse divisioni dell'armata rossa per una guerra contro la Germania. La Polonia negò il diritto di passaggio (e si può capire: veniva da un secolo di dominazione zarista e da una recente guerra contro la Russia sovietica), Chamberlain e Daladier fecero orecchie da mercante.
Lo sciagurato patto Molotov-Ribbentrop , l'arrogante "contrordine compagni" fu anche un atto di autodifesa. Francia e Inghilterra diffidavano dell'Unione Sovietica, l'Unione Sovietica diffidava di Francia e Inghilterra e non voleva trovarsi sola contro la potenza nazista. Che Katyn sia stato un orrore è inutile dirlo, lo sappiamo tutti.
A Yalta la Russia staliniana non cerca solo di fare una politica di potenza, cerca anche (credo soprattutto) di avere garanzie che Napoleone e Hitler non si ripetano, di non avere nemici alle porte.
Ed è cortina di ferro e guerra fredda: di quanto avviene dopo abbiamo parlato sopra.
Certo, anche la russofobia avrà una ragione sufficiente, ma il fatto è lì, evidente e innegabile, e non mi interessa ficcarmi in un regressus in infinitum.
Un mio vizio è cercare di capire dove sbaglio io o la mia parte, per tentare di correggermi. Per questo spesso passo per un traditore della patria e degli amici.
Spesso si cita (lo faceva giorno sì e giorno no Veltroni) la frase di Carl Schurz "“My country, right or wrong", ma si dimentica che concludeva così: "if right, to be kept right; and if wrong, to be set right”.
E allora? La Cina è vicina.
Io non so come e quando finirà questa assurda e anacronistica guerra, in cui motivazioni nazionali si intrecciano con la sfida per l'egemonia mondiale. Nemmeno so come desidero che finisca, se con concessioni territoriali ai russi e una rapida conclusione o con la vittoria ucraina, la "redenzione" dai russi delle terre già "redente" dai russi (Dombas, Crimea), la caduta di Putin, l'indebolimento della Russia. Credo di sapere che questa guerra poteva e doveva essere evitata.
Quello che so è che questa guerra dovrebbe farci riflettere e guardare al futuro con qualche maggiore lungimiranza.
Come ho scritto la lettura mattutina de La Stampa mi permette di percepire abbastanza bene il mood atlantista: c'è un altro "avversario", a volte scappa detto "nemico", ben più insidioso e potente della Russia: la Cina.
Mi chiedo perché.
Non vedo, almeno per ora, atti ostili da parte della Cina. Certo, la Cina è diventata, è stata costretta a diventare, una grande potenza industriale, si è dotata di sofisticate tecnologie, ha una popolazione immensa e un potente esercito.
Non è stata la Cina a chiedere di partecipare a questa nobile gara: nel 1793 l'imperatore Qianlong rimandava in Inghilterra l'ambasciatore Macartney con una lettera che ringraziava Giorgio III per i "tributi" e cortesemente (non troppo) rifiutava di aprire rapporti commerciali con la Gran Bretagna perché "noi non abbiamo mai apprezzato oggetti strani e curiosi e non abbiamo alcun bisogno dei prodotti del tuo paese".
Ci sono volute due guerre dell'oppio, la repressione della rivolta Taiping e di quella dei Boxer (Guglielmo II: "che un Cinese non osi mai più nemmeno guardare di traverso un tedesco"), due guerre mondiali, la grande tragedia della Rivoluzione Culturale.
Alla fine la Cina, spinta con la frusta, è scesa nel campo della sfida lanciata dall'Occidente. Ci si è messa con la dedizione e la disciplina della tradizione confuciana e, in molti campi ha superato Stati Uniti ed Europa.
È la globalizzazione, bellezza!
Se, come io credo, l'uomo occidentale si è sobbarcato ad una missione: lo sviluppo della scienza, della tecnica, delle forze produttive (lo siamo diventati, Renato mio, i "ben titolati signori della natura". Io ne avrei anche fatto a meno), dovrebbe rallegrarsi che un nuovo popolo, e con tanto successo, condivida questa missione. Dovrebbe collaborare e gioire della competizione: è garanzia che i risultati saranno sempre migliori.
Ma a questo scopo ultimo, lo sviluppo, si oppongono considerazioni legate all'egemonia mondiale e alla potenza nazionale: ben venga che Cina (e Corea, e India, e Vietnam ecc.) diventino le officine del mondo, ma il primato deve rimanere occidentale. Considerazioni condite, a mio parere in modo piuttosto pretestuoso, di democrazia, libertà, diritti umani.
Giorgio Guglielmo Federico sosteneva che lo Spirito del Mondo abita di volta in volta un popolo, poi passa ad un altro e non ritorna. Gli Stati Uniti hanno avuto il loro grande secolo, ed è ovvio che difendano il loro primato. Ma che la fiaccola passi ad altri non è uno scandalo, anzi, in fondo è un'ovvietà, e forse si può sperare che la missione storico-mondiale sia interpretata in modo un po' meno sciocco e più consapevole. Noi italiani siamo stati visitati dallo spirito del mondo ben due volte: con Roma e con il Rinascimento, potremmo considerarci soddisfatti e dedicarci al nostro tran tran post storico.
Io non riesco a vedere nella Cina una minaccia: ho un telefonino cinese, un computer in buona parte fatto in Cina, mutande cinesi, evito malattie cinesi.
Credo che considerare la Cina un avversario o un nemico, invece che un leale competitore, sia una pericolosa follia.
Qualcuno chiederò di cosa sto blaterando: faccio due esempi.
Ci stiamo avviando verso il paradiso del G5: so che mi piacerà, davanti alle novità informatiche sono goloso come un bambino davanti a una torta, anche se trent'anni fa vivevo altrettanto bene e forse meglio senza telefonino e computer: leggevo di più, pensavo di più, scopavo di più (va be', scopavo e basta. Ero giovane). Attraverso le centraline G5 passeranno miliardi di dati, spesso sensibili e riservati, e le aziende cinesi offrono soluzioni tecnologiche avanzate e a buon mercato.
Ora, posso capire che considerazioni di sicurezza nazionale inducano ad evitare di affidare ad aziende cinesi questi nodi vitali (capire, non condividere. Per me le nazioni non moriranno mai abbastanza presto).
Ma il boicottaggio di Huawei è semplicemente grottesco: decidere di non affidare ad Hawei la progettazione e costruzione delle infrastrutture G5 può avere un senso, ma vietare ai telefonini honor l'uso di google maps, gmail, google play è una dissennata provocazione: cosa ci aspettiamo in cambio?
Stessa cosa, se non peggio, la seconda via della seta: l'occidente ha imposto al mondo l'economia globale, il WTO la sorveglia, eppure la costruzione di una via commerciale che trasporti più rapidamente merci che comunque compreremmo viene considerato un atto ostile (e il governo italiano, che ha partecipato al progetto, sospettato di tradimento). Ancora una volta, cosa ci aspettiamo?
Si potrebbe dire: e gli Uiguri? E Tienanmen?
Io rispondo: e le migliaia di naufraghi nel mediterraneo? E i campi di concentramento libici? E il confine ungherese? E lo Yemen? E l'Egitto?
Potrei andare avanti. Ma guardate, il mio non è benaltrismo. Almeno non lo credo.
Si narra che Roosevelt abbia detto a proposito di Somoza: "sarà anche un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana".
È proprio questo che non accetto: io penso che ogni popolo e nazione dovrebbe fare i conti con i propri figli di puttana, aspettando e sperando che gli altri popoli lo facciano con i loro. Denunciare gli altrui figli di puttana è un modo molto facile per dimenticarsi dei propri.
Sono molto stanco e deluso, ma continuo a pensare che la storia si muova verso la libertà e che nazionalismi, sospetti, accuse siano un ostacolo a questo cammino.
Non vorrei svegliarmi una mattina ascoltando alla radio la notizia che la Cina ha invaso Taiwan, per poi sentire, in attesa della bomba finale, pensosi commentatori denunciare le atrocità cinesi e invitare ad armare la resistenza di Taipei.
Se si impedisce a un popolo o a un paese di affermarsi attraverso la competizione pacifica la guerra è una possibilità molto concreta. E non è più la guerra di una volta, con qualche decina di migliaia o di milioni di morti: in gioco è l'umanità, il che forse non è questo gran male.
Con la Cina bisogna cercare cooperazione, distensione, collaborazione, bisogna evitare di vedere in ogni sua azione un atto ostile e di elevare il livello della scontro. Lasciate che Huawei usi Google Maps, lasciate che i treni attraversino l'Asia.
Io ve l'avevo detto, prima che tutto cominci, o finisca.
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E questo è il link al primo post, dove spiego tutto e do le indicazioni su come contribuire. Again, just click
Per tre settimane non ho aggiornato questo blog. Non vuol dire che siamo stati fermi, anzi, c'è stato troppo da fare e non trovavo il tempo per scivere. Vediamo di recuperare il tempo perduto.
Cominciamo con una bellissima notizia.
Ricordate Pico? Era il piccolino peloso trasferito da un altro canile, che se ne stava terrorizzato in fondo al suo box.
Di tanto in tanto lo portavamo fuori e un po' alla volta aveva preso sicurezza e confidenza. Passato lo spavento si era rivelato un cagnolino favoloso: affettuoso, giocherellone, divertente.
Lo abbiamo vaccinato, gli abbiamo fatto i test per le malattie da vettore e finalmente Pico ha una famiglia.
Nel filmato che chiude trionfalmente il diario di questa settimana lo vedete nella sua nuova casa, mentre gioca con il suo nuovo fratellino.
Non è bellissimo? Cosa ci faceva un cagnetto così chiuso in un canile?
Per la sua liberazione dobbiamo ringraziare tante persone: voi che ci sostenete, il personale del canile che ci sopporta (grazie Dimitri!), i bravissimi volontari olandesi che hanno preso a cuore le sorti dei cani buttati in questa terra di Calabria, che ogni mese fanno il lungo viaggio per venire a prendere quanti più trovatelli possibile, che curano le adozioni, che ci informano con foto e video sulla loro nuova condizione.
Grazie!
Finita l'autocelebrazione, torniamo al nostro solito modo di scrivere e raccontare.
Canile 1
Qui purtroppo le cose vanno piano. Forse ricordate che in luglio ho ritirato e portato in stallo a pagamento Birba, Nicolina, Billy e Gulliver.
Purtroppo sono ancora tutti lì, la scorsa settimana ho pagato il terzo mese di pensione.
Comunque qualcosa si sta muovendo, finalmente: venerdì Birba, la cagnetta a sinistra, la cagnetta buonissima anche se forse non bellissima, la cagnetta che non puoi fare una passeggiata perché ogni due passi si mette pancia all'aria ad aspettare una carezza. Venerdì Birba, dicevo, partirà per la sua nuova casa in Germania.
Per lei la lunga attesa è finita, e si libera un posto per un altro cane da tirare fuori dal canile.
Anche per Billy e Gulliver, i due bei cuccioloni, ci sono buone notizie. Finalmente qualcuno si è accorto di loro e a fine ottobre potranno partire.
Altre due anime liberate! Spero di darvi la conferma in un prossimo blog e di mostrarveli liberi e felici.
Rimane ad aspettare la povera Nicolina: per lei ancora niente.
È dolcissima e a me sembra bellissima, ma è anzianotta: 8 anni. Non è facile trovare adozione per un cane di questa età.
Pazienza, aspettiamo che anche per lei si apra un'opportunità. Intanto è in uno stallo casalingo, gira libera e vive certamente meglio che in canile.
Ma bisogna mantenerla!
Visto che le cose finalmente si muovono, stiamo iniziando a pensare alle prossime uscite.
In collaborazione con altre due volontarie e con l'aiuto di un gruppo Whatsapp presto, speriamo già la prossima settimana, dovrebbero usciere due microbi: un simil volpino di circa 6 chili trovato investito sulla strada in agosto e Coco, una piccolina in canile da un sacco di tempo.
Con loro, spero, dovrebbe uscire anche Teo, un giovanotto delizioso accalappiato in agosto. È giovane, vivacissimo e mal sopporta di stare chiuso in un box. Se la cosa non andasse a buon fine sarà il prossimo che prenderò e porterò in stallo
E, visto che Birba, Billy e Gulliver sono prossimi alla partenza, ho cominciato a guardarmi in giro per decidere chi li sostituirà nello stallo e nell'attesa di una vera casa.
Al momento ho due candidati: Spino (nome mio, non ho chiesto come è registrato all'anagrafe), un simpatico simil spinoncino giovane e vivace, e Ambra, un incrocio di maremmano di taglia molto contenuta. Sono entrambi giovani, belli, docili. Dovrebbero trovare presto adozione.
Speriamo!
Canile 2
Qui le cose vanno molto più svelte. Abbiamo piena agibilità e collaborazione, andiamo almeno una volta la settimana, e, soprattutto, non sono solo: siamo sempre almeno tre. Ci si aiuta nel fare fotografie, portare i cani in passeggiata, cercare soluzioni.
Da questo canile è partito Pico, il cagnolino che apre questo post. Ma non è il solo: proprio ieri è partito anche Miki:a sinistra lo vedete in canile, a destra lo vedete nella sua nuova famiglia, già a spasso.
Miki è stato accalappiato in luglio, insieme al suo fratellino Pio. Anche per Pio abbiamo trovato una bella adozione e sabato partirà per il nord Italia: e fanno tre!
Con questo abbiamo quasi svuotato un box, ma c'è un ma: nello stesso box c'è Ale.
Ale è uno dei cagnolini più spaventati che io abbia mai visto. Teme l'uomo, quando lo portiamo fuori rifiuta di seguirci al guinzaglio e tira per andare alla rete del box più vicino, quasi a cercare la protezione dei suoi simili.
Eppure dispiace lasciarlo lì da solo. Stiamo cercando di prepararlo per l'adozione, ma non è facile.
Qui non si tratta solo delle solite spese per vaccini e test, e nemmeno della solita fatica per affrontare le incombenze burocratiche.
Bisogna conquistarlo: ieri me lo sono preso e mi sono seduto mezz'ora nell'erba vicino a lui. Un po' alla volta mi ha rivolto qualche timido sguardo e ha accettato di mangiare qualche biscottino dalle mie mani: è un primo passo importante, vediamo se la prossima volta si ricorda o bisogna cominciare tutto da capo. Comunque ci lavoriamo.
E veniamo a un'altra bellissima notizia: in un box c'è Black, un pastore tedesco di 16 (avete letto bene!) anni. Per Black si è tessuta una rete di solidarietà, si è formato un gruppo Whatsapp dedicato a lui e, dopo un mese di preparazione, sabato lascerà il canile. Lo abbiamo portato in un ambulatorio a fare una bella visita - a questa età sconvolgere le abitudini di una cane e metterlo su un furgone per un lungo viaggio non è cosa da fare a cuor leggero -, lo abbiamo portato più volte in paseggiata e abbiamo visto che ha ancora voglia di vivere, di camminare, di ricevere carezze.
Così sabato Black partirà per Trieste: andrà in un rifugio con un vastissimo giardino dove finalmente potrà camminare, camminare e camminare libero e potrà vivere un sereno tramonto. Nel prossimo post spero di potere inserire qualche sua fotografia fuori da quella gabbia!
Anche in questo caso una ciliegia tira l'altra: in box con Black c'è Leo: un terremoto di cane, vivacissimo e affettuosissimo. Se devo dire la verità l'ho tirato fuori perché mi ha fatto tante feste, tanti salti al petto che temevo di non riuscire a chiudermi la porta alle spalle con solo Back: mettergli il secondo guinzaglio che porto sempre al collo a mo' di stola e portare fuori anche lui mi è sembrata la soluzione più semplice.
Leo è uno splendido meticcio un po' lupetto, un po' husky; gli abbiamo fatto fare i test di rito, tutti negativi, gli abbiamo messo un antiparassitario, e sarebbe quasi pronto per partire. Il problema è trovargli una casa: sarà il prossimo impegno.
Abbiamo anche un'altra protetta: Diva, una splendida cucciolona di un anno e mezzo, dal pelo lungo. Non dovrebbe proprio faticare a trovare casa. Per ora le abbiamo fatto fare i test, negativi, la vaccinazione antirabbica, necessaria per adozioni all'estero, e aspettiamo. Speriamo di poterla liberare presto.
Per finire, ci sono i casi un po' più complicati, perché sono cani di grossa taglia, perché non è facile trovare loro casa per la taglia e perché impegnativi.
Sono cani che probabilmente finiranno i loro giorni in canile. È una cosa molto triste guardare quei pit, corsi, pastori dietro la rete e sapere che potremo fare molto poco.
Alcuni però non si possono vedere e cerchiamo di fare qualcosa. In particolare abbiamo preso a cuore due casi.
Il primo caso è la mia amata Dasy: chi mi ha letto la ricorderà senz'altro. È una bellissima corsa bionda di tre anni, dolcissima e giocherellona, trovata in aperta campagna, scheletrica, con un colpo di fucile in testa.
In canile litigava per il cibo con i suoi compagni di box, per questo era da sola in un box di cemento, chiuso, senza nemmeno un cortiletto esterno per prendere un po' di aria e di sole.
La scorsa settimana l'ho presa e l'ho portata in uno stallo a pagamento: non è il paradiso, ma almeno sta in un box luminoso, tutti i giorni può fare una corsa in un prato, quando voglio posso andare a giocare un po' con lei e a farle qualche coccola.
A sinistra la vedete com'era in canile, a destra mentre finalmente si rotola liberamente nell'erba.
Inutile dire che sto facendo di tutto per trovarle casa: come cane unico sarebbe pronta anche subito.
L'altro caso è simile, anche se un po' più facile: i pastori tedeschi incutono meno timore ed è più semplice trovare un'associazione o un rescue che se ne facciano carico.
Si tratta di Rex: uno splendido pastore tedesco che pativa molto il canile. Lo abbiamo preso e portato nello stesso stallo a pagamento dove si trova Dasy, anche per lui cerchiamo casa.
La scorsa settimana li abbiamo portati a fare una passeggiata insieme al guinzaglio: un po' diffidenti all'inizio, ma tutto bene.
E poi ci sono i cuccioli: con loro è tutto un po' più facile. Non c'è il problema di conoscerne il carattere e sono più richiesti, ci stiamo occupando di parecchi casi.
Come vedete c'è tanto da fare.
Io non credo che il canile sia il male assoluto, spesso è meglio della strada. Ma dovrebbe essere una stazione di passaggio dalla strada a una famiglia.
Non è accettabile che un cane passi tutta la vita nel box di un canile, senza mai una corsa, senza mai toccare e annusare l'erba, senza mai una carezza. E questi canili sono così.
Noi ce la mettiamo tutta, ma abbiamo bisogno di aiuto.
Ci servono volontari.
Ci serve aiuto economico per spese sanitarie, stalli, staffette.
Ci servono soprattutto adozioni: come vedete molto spesso dobbiamo cercare casa all'estero ai nostri cani.
Certo, è bello comperare un cucciolino di razza e portarlo a casa; ma la gioia che può dare la gratitudine di un cane salvato dal canile è molto più grande!
Eccovi Pico nella sua muova casa!
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Questo è il link alla pagina madre, dove trovate tutti i post di TIRIAMOLI FUORI (i nostri interventi nei canili). Just click
E questo è il link al primo post, dove spiego tutto e do le indicazioni su come contribuire. Again, just click
Rieccoci, è settembre, siamo in piena attività e riprendo il mio diario dai canili
Canile uno
Come ho spiegato altre volte, qui non si può andare e venire, tutto passa attraverso il gestore.
Forse ricordate che all'inizio di agosto abbiamo preso e portato in una stallo Billy, Nicolina e Birba. Purtroppo non hanno ancora adozione e abbiamo pagato il secondo mese di pensione.
Birba, la cagnetta più affettuosa del mondo, quella che non puoi fare una passeggiata perché ogni due passi si gira a pancia in su per cercare una carezza, probabilmente ha trovato casa e presto partirà per la Germania.
Mercoledì mattina l'abbiamo portata da un'amica volontaria per capire come si comporta con i gatti: la famiglia adottante ha già cani e gatti. Tutto bene, presto dovrebbe partire.
Anche per Nicolina le cose si stanno muovendo, arriva qualche proposta e speriamo di mandarla presto in una casa tutta sua. Per ora vive serena insieme agli altri cani dello stallo, molto, molto meglio che in canile.
Stessa cosa per Billy: è il più giovane ed è ancora un po' selvatico e impaurito. Questa settimana l'abbiamo portato dal veterinario per la castrazione. Adesso è pronto. Speriamo che non debba aspettare tanto, per lui, che ha bisogno di una casa, e per le nostre finanze.
Abbiamo preso anche altri due cani.
Avevamo messo gli occhi su una cucciolata di nove cuccioli nati in canile e preso accordi per ritirarli. Purtroppo, prima che potessimo prenderli e che ricevessero il primo vaccino sono tutti morti :-(
La parvovirosi è terribile e spesso letale; se non curata lascia ben poche speranze.
In box con loro c'era anche Gulliver, figlio di un'altra madre e scampato alla malattia. Siamo andati a prenderlo il più presto possibile e l'abbiamo portato in pensione.
È piccolino, bellissimo, ha un bel caratterino (guardate il filmato sotto!). Per lui le domande sono fioccate e un mese di stallo dovrebbe essere sufficiente.
E poi c'è la nostra Penny, trovata per la strada da un'amica volontaria e fatta accalappiare per salvarla dai pericoli. Ve ne ho già parlato nel post precedente. Finito il trattamento sanitario, sterilizzata, l'abbiamo subito presa e portata in pensione. Dovrebbe partire presto.
Insomma, in questo momento abbiamo cinque cani in stallo. E quando partiranno ne prenderemo altri .
È uno stallo casalingo, amorevole, attento ai bisogni degli animali, ma ha dei costi.
Per poter fare più e meglio ci servirebbero adozioni veloci e aiuto economico.
E veniamo al canile due
Qui abbiamo molte buone notizie e una notizia meno buona. Cominciamo dalle buone.
C'erano una volta due cagnolini piccoli e pelosi che se ne stavano chiusi in un box: Milù e Pico (in realtà all'anagrafe è Cesare, ma non lo sapevo e nella mia furia nominatoria avevo scelto un nome filosofico). Milù è partita e Pico è rimasto solo.
Ebbene, anche per Pico è arrivata una bella richiesta: abbiamo fatto (e pagato) i test per le malattie mediterranee e la vaccinazione antirabbica e presto Pico lascerà il box e partirà verso una vera casa.
Ma c'è una notizia ancora più bella: in una chat di volontari alcuni chiedevano cani anziani. Ebbene, ci siamo resi conto che c'era lui: Black, 16 anni (!), in canile, a aspettare la fine.
Fatico a crederci, ma per Black, che pensavo inadottabile (chi si prende un cane di 16 anni?), sono arrivate delle belle richieste. La generosità dei volontari non ha limite. Probabilmente presto Black andrà a casa, non più il cemento di un box, ma coccole e cuscini.
Oggi l'abbiamo portato a fare una bella visita e i parametri vitali sono buoni. Può partire e, spero proprio partirà.
Per Black non cerco soldi: le spese saranno coperte dal gruppo nato su WhatsApp, ma la notizia è talmente bella che volevo condividerla! E poi questo diario dai canili serve a voi se avete voglia di leggerlo, ma soprattutto serve a me, per ricordarmi cosa faccio della mia vita.
E andiamo avanti: continuiamo a preparare Ciccio, un giovane maremmano favoloso, e Rex, un pastore tedesco che il proprietario "non può più tenere" (boh!) ed è finito in canile. Anche per loro speriamo di risolvere presto.
E veniamo alla cattiva notizia: Dasy (già Deia: l'operaio del canile - persona deliziosa che da solo si gestisce 250 cani, lo fa con dedizione ed è estremamente disponibile con noi volontari - aveva letto male. Già Daisy: il veterinario del canile aveva letto male: lectio facilior. Proprio Dasy, mi sono letto il microchip e ho controllato. I veterinari dei canili inventano strani nomi, o li trascrivono male.), be' Dasy è sempre lì.
È una cagnolina corsa di 3 anni e 30 kg, trovata nelle campagne calabresi con una ferita da arma da fuoco nella testa.
È bellissima e buonissima, ma litiga per il cibo; per questo resta rinchiusa da sola, senza nemmeno un compagno, in una cella di 2x3 metri, senza neanche il cortiletto esterno dove stendersi a prendere il sole.
Nella mia esperienza in una casa dove ogni cane ha la sua ciotola la questione del cibo si risolve in 24 ore, ma in canile è impossibile.
Ho fatto appelli, ho cercato stallo a pagamento al nord da associazioni che possano risolvere il problema e trovare adozione.
La amo alla follia, ma niente! Dasy rimane lì, in cella, da sola, ad aspettare quei 15 minuti alla settimana in cui le faccio fare una passeggiata. E rischia di continuare così per i prossimi 10 anni. Sono tristissimo.
Bene, il diario dai canili calabresi d questa settimana finisce. Pensavo di andare al mare, ho trovato il randagismo.
Se volete darci una mano, i dati per contribuire sono sempre qui.
Alla prossima settimana.
Ho finito ieri di leggere Sublime madre nostra, un bel testo pubblicato nel 2011 da Alberto Mario Banti dove l'autore esamina la genesi e le forme del discorso nazional-patriottico dal Risorgimento al fascismo, soffermandosi sul cruciale passaggio della Grande Guerra.
Banti sostiene che il mito della nazione e della patria - a mio parere una delle massime follie del XIX e XX secolo - si costruisce sulla base di tre assunzioni fondamentali, che permangono nelle diverse forme da esso assunte nel corso della storia italiana:
-La nazione come comunità di discendenza, come parentela, famiglia, sangue comune (si pensi all'Inno di Mameli: "Fratelli d'Italia"). Tema che ovviamente si accompagna a diffidenza e ostilità verso l'altro, il diverso.
- La nazione come comunità sacrificale, spesso accompagnata da tonalità religiose (siamo uniti dal sangue versato dai padri e dai fratelli morti per la patria. Talvolta, come accade nelle omelie di alcuni cappellani militari durante la prima guerra mondiale, il sacrificio è descritto come imitazione di Cristo: come Cristo accetta la morte per compiere la volontà del Padre -"sia fatta la tua volontà"-, così i fanti vanno incontro alla morte per compiere la volontà di quella nuova divinità, immanente, che è la Patria).
- La nazione come comunità sessuata, che prevede una rigida separazione dei ruoli: compito del maschio è donare il proprio corpo e la propria vita alla patria, compito della donna è formare figli per la patria e sopportare il dolore della perdita. Sullo sfondo l'ulteriore compito del maschio: difendere l'onore e la virtù della donna dalle offese nemiche.
Tutto ben riassunto, e profeticamente anticipato, nei versi manzoniani di Marzo 1821:
una d'arme, di lingua, d'altare
di memorie, di sangue e di cor.
Il libro è bello, ben documentato, ma non è questa la ragione per cui ne parlo. Nelle ultime pagine (L'Epilogo, sono sei pagine che riporto sotto) Banti allarga lo sguardo all'attualità e l'effetto è sconcertante.
Ripeto, il libro è del 2011, abbastanza recente, mi pare; eppure quante cose sono cambiate negli ultimi sette anni!
Banti constata con un certo sollievo che nel secondo dopoguerra il discorso nazionalistico è quasi scomparso dal dibattito politico (nonostante persistenze nella legislazione sulla cittadinanza, nei programmi scolastici e - soprattutto - nella retorica dello sport).
Si sofferma poi sullo sforzo di far rinascere un sentimento di appartenenza patriottica ad opera del Presidente Carlo Azeglio Ciampi, ed ecco Prodi e Melandri cantare entusiasti il "sanguinolento" Inno di Mameli ai mondiali 2006 («stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l'Italia chiamò», roba che "Deutschland über alles" - Germania sopra tutto, non sopra tutti come spesso viene mal tradotto - in confronto è una quisquilia); manca nella ricostruzione, perché ancora da venire, la retorica patriottica del presidente Napolitano.
A parere di Banti le intenzioni di Ciampi erano profondamente democratiche: la retorica della nazione mirava a "dare calore alle istituzioni della Repubblica, in modo da farle nuovamente considerare espressione di una coesa comunità nazional-patriottica". Ma soprattutto il senso profondo del rilancio dell'idea di nazione, che mobilitava il tradizionale apparato ideologico dell'unità di lingua, storia e stirpe, andava ricercato nel bisogno di contrastare il nazionalismo localistico-secessionistico della Lega.
Il guaio è che il localismo leghista era una cosa in fondo ridicola, paesana, incapace di trovare vere radici. Il peggio doveva venire.
Nel 2011 Banti non poteva immaginare che di quella retorica della patria comune, incautamente evocata da Ciampi, si sarebbe appropriata proprio la nuova Lega salviniana, ed eccoci al triste spettacolo del ritorno alla comunità del sangue, all'identità religiosa della nazione, al prima noi, alle nostre donne insidiate dalla marea nera dei migranti. Tutto tragicamente già visto, tutto tragicamente ritornante!
Ecco, per chi volesse leggerlo, l'Epilogo di Sublime madre nostra.
P.S. Su una sola cosa dissento da Banti: la polemica contro lo studio della Divina commedia: la Divina commedia va studiata, e non perché sia frutto del genio della "razza italica" ma perché è patrimonio dell'umanità, come i Dialoghi di Platone, le tragedie di Shakespeare, la Critica del Giudizio.
EPILOGO
Molti degli aspetti morfologici che strutturano il discorso nazionale continuano a vivere ancora tra il 1943 e il 1945 sia all'interno della Repubblica sociale italiana sia - in forme diverse - all'interno di varie formazioni partigiane. Tuttavia la fortissima identificazione tra regime fascista e discorso nazional-patriottico fa sì che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, i termini «nazione» e «patria» e i valori che sono loro associati vengano abbandonati dai protagonisti della vita pubblica italiana. Questa dinamica non è solo italiana; e non è solo dovuta agli scenari della guerra fredda e all'ispirazione sovranazionale che anima i principali partiti politici italiani (Dc e Pci). Quasi dovunque il nesso strettissimo che si è creato nei decenni precedenti tra ideologia nazional-patriottica e nazi-fascismo induce politici e pubblicisti di vario orientamento democratico a evitare per quanto possibile il riferimento all'universo valoriale del nazional-patriottismo.
E qui capitano due cose interessanti. In primo luogo, il senso di appartenenza nazionale non viene perso del tutto, poiché restano attivi frammenti rituali, simbolici e discorsivi centrati sull'idea di nazione che appartenevano alla vita pubblica precedente.
Intanto, per fare qualche esempio relativo all'Italia repubblicana, il diritto di cittadinanza continua a basarsi sui criteri parentali su cui si basava nel Regno d'Italia. [Si pensi al recente dibattito sullo ius soli, nota mia]
In secondo luogo il canone educativo, dalle scuole elementari fino alle superiori, è ancora centrato sulla preminenza della letteratura in lingua italiana, un'impostazione che deriva dal principio puramente nazional-patriottico secondo il quale c'è più da imparare dallo studio della Divina Commedia - anche se la si deve leggere in un italiano arcaico e col continuo ricorso alle note esplicative - di quanto si possa imparare dalla lettura di Guerra e pace, o dei Buddenbrook, o di Gita al faro, anche se sono tradotti in ottimo italiano corrente, perché la Divina Commedia sta sul «nostro» asse genealogico, mentre le altre opere no: il che induce a pensare che una qualche identità nazionale, legata alla cultura e alla letteratura, debba esistere per forza.
Infine, il lessico sportivo continua a valorizzare in modo parossistico le imprese dei «nostri» atleti.
Un esempio estremo di questo nazionalismo collaterale è dato dalle Olimpiadi di Roma del 1960, dove il desiderio di esibire al mondo l'immagine di un'Italia nuova è animato dal linguaggio del nazionalismo sportivo che, peraltro, è sempre molto vivo in questo tipo di competizioni. Anche in un contesto culturale generalmente piuttosto localistico come quello del tifo calcistico, si opera una sorta di miracolo (accuratamente costruito durante il fascismo, peraltro) : quando gioca la «Nazionale», gli stadi e i giornali sportivi si trasformano in uno dei contesti di massima persistenza e di massima valorizzazione dell'identità nazionale, col suono dell'inno di Mameli, il tripudio di bandiere tricolori e il confronto stereotipato tra il genio calcistico italiano e le modalità di approccio delle altre «scuole calcistiche» nazionali, la cui differenza è spesso fatta risalire al presunto effetto dei diversi «caratteri nazionali». L'apoteosi di questa retorica viene celebrata, per esempio, in occasione della vittoria italiana ai Mondiali di calcio di Spagna, del 1982, con la finale giocata sotto gli occhi del Presidente della Repubblica italiana, Pertini.
Ad ogni modo, se questi fenomeni sono importanti nel far sopravvivere frammenti di discorso nazionale, non animano il dibattito e lo scontro politico, all'interno del quale, almeno fino agli anni Novanta, solo occasionalmente e marginalmente ci si appella a «nazione» o «patria».
Questa è una tendenza che attraversa tutto l'Occidente democratico. Dovunque, nel secondo dopoguerra, il linguaggio nazional-patriottico diventa una sorta di repertorio d'archivio, trascurato dai principali protagonisti della vita politica, e perciò stesso a disposizione di soggetti marginali o anti-establishment che se ne vogliano impossessare.
E qui interviene il secondo fenomeno interessante, ovvero il recupero attivo del discorso nazional-patriottico, che comincia a prendere un'evidente consistenza dagli anni Sessanta quando, qua e là, si formano vari movimenti neo-nazionalisti: l'Eta nei Paesi Baschi; l'Ira in Irlanda; gruppi neo-nazionalisti in Corsica, Bretagna, Fiandre, Sud-Tirolo, e altri luoghi ancora. Sono movimenti molto diversi tra loro, ma non di rado inclini al recupero sia della morfologia discorsiva, sia della pratica del nazionalismo romantico, ricorso alla violenza compreso.
In questo quadro generale si inserisce anche il fenomeno neonazionalista delle varie formazioni che rivendicano un'identità nazionale all'una o all'altra delle regioni del Nord Italia, confluite poi nella Lega Nord. Il movimento leghista delle origini si caratterizza per un lessico neo-nazionalista (la nazione padana, di asserita, ed evidentemente infondata, derivazione celtica); per il tentativo di inventare tradizioni neo-nazionali (il rito dell'ampolla) ; per una certa disponibilità a ricorrere a un linguaggio violento. Rispetto alle connotazioni originarie, ben visibili ancora a metà degli anni Novanta, l'inclusione del partito nella coalizione politica di centro-destra ha indotto i suoi leader ad attenuare il ricorso alle parole d'ordine della nazione padana, dell'indipendenza e della secessione (anche se nessuno di questi momenti simbolici è stato esplicitamente sconfessato).
È in risposta alla preoccupazione suscitata dalla Lega e dalla minaccia di una possibile frattura dell'unità nazionale italiana che è rinato il dibattito sulla identità nazionale italiana. Ed è in risposta a quei pericoli che ha preso vita il più importante tentativo di rilancio istituzionale del senso di appartenenza a una comunità nazionale che abbia avuto luogo nel secondo dopoguerra, quello condotto con grande determinazione dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi tra 1999 e 2006. Le intenzioni che hanno mosso le campagne neo-patriottiche di Ciampi sono puramente democratiche: dare calore alle istituzioni della Repubblica, in modo da farle nuovamente considerare espressione di una coesa comunità nazional-patriottica.
Ma il ricorso a simboli, rituali, e discorsività classiche, che ha connotato questo tentativo, ha prodotto uno strano effetto: la nazione è stata presentata da Ciampi e dai suoi collaboratori di nuovo come una comunità di parentela, all'interno della quale i valori nazional-patriottici classici (la celebrazione della morte in battaglia, l'esaltazione delle forze armate, la commemorazione di eventi bellici significativi - dal Risorgimento, alla Grande Guerra, alla Resistenza -, la valorizzazione di simboli tipicamente nazionalisti come il Vittoriano o la Tomba del Milite Ignoto) hanno rilanciato un complesso discorsivo che sembra porsi in linea di continuità con l'universo simbolico del nazionalismo italiano come si è costruito dal Risorgimento al fascismo. Presentando in forma sintetica la ratio che ha guidato il neo-patriottismo ciampiano, uno stretto collaboratore del presidente, Paolo Peluffo, ha ricordato che gli elementi fondamentali che hanno orientato l'iniziativa neo-patriottica, consentendo di identificare la «nazione italiana», sono stati l'epos (la memoria collettiva), il logos (la lingua), l'ethos (l'insieme di valori), il ghenos (i «legami di sangue e parentela»), e il topos («un territorio iconizzato in una immagine simbolica della Patria»).
Si tratta di una definizione che ogni ideologo del nazionalismo otto-novecentesco avrebbe sottoscritto con trasporto: e nonostante sia una definizione che è in contrasto con i risultati della migliore ricerca scientifica recente, che sottolineano il carattere artificiale e manipolatorio del discorso nazionale, privo di ogni rapporto di necessità con un qualunque ghenos o topos originario, l'iniziativa ciampiana è stata accolta dai media con una sorta di entusiasmo liberatorio, come se il nazionalismo residuale alimentato nel secondo dopoguerra da frammenti di un discorso pregresso (leggi sulla cittadinanza, canone scolastico, retorica sportiva) trovasse finalmente in Ciampi un interprete in grado di controbattere le «invenzioni» neo-nazionaliste della Lega. Ma con ciò, vale la pena ripeterlo, il neo-patriottismo ciampiano non ha fatto altro che riproporre - con minime variazioni - il blocco discorsivo proprio del nazionalismo classico, come si è formato tra Risorgimento e fascismo.
Il caso dell'iniziativa ciampiana è particolarmente importante perché mostra le implicazioni contingenti e quelle strutturali che possono essere prodotte dal ricorso alla classica tradizione discorsiva nazional-patriottica. Dal punto di vista contingente ha creato strane situazioni. Cosi, per esempio, osservare leader del centro-sinistra italiano, come Romano Prodi o Giovanna Melandri, che in diretta Tv festeggiano la Nazionale italiana di calcio vittoriosa nei Mondiali del 2006, cantando con entusiasmo ciampiano un inno che esalta il nazionalismo sacrificale, come Fratelli d'Italia («stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte»), sarà risultato un po' desituante per un bel pezzo del loro elettorato, più aduso a commuoversi alle note di Blowing in the Wind o Imagine, che alle figure sanguinolente del nazionalismo mortuario di epoca romantica. Viceversa, sembra che Ignazio La Russa si trovi perfettamente a suo agio nel celebrare l'esercito italiano, l'Anniversario della vittoria, o i sacrifici che i soldati italiani all'estero compiono, a prezzo a volte della loro vita: e son convinto che una buona parte del suo elettorato non trova niente di strano nelle sue iniziative.
Dal punto di vista strutturale l'iniziativa ciampiana, e le modalità attraverso le quali si è sviluppata, suggeriscono che le parole-simbolo, i sistemi discorsivi, i rituali che strutturano l'identità nazionale si distanziano con difficoltà dagli archivi memoriali ai quali appartengono; e quindi conservano latente l'intera complessità del discorso-matrice che li ha foggiati. Coloro che - con qualunque intenzione, anche la più democratica - si preoccupano adesso della questione dell'identità nazionale, dovrebbero essere consapevoli che «nazione» e «patria» sono due termini che - quasi per riflesso condizionato - si portano con sé una serie di formazioni valoriali specifiche che inducono a pensare la nazione come parentela, come discendenza di sangue, come memoria storica esclusiva e selettiva, come valorizzazione di narrazioni belliciste e maschiliste.
Davvero si ritiene che i cittadini e le cittadine della Repubblica italiana abbiano bisogno di questo sistema di valori? Davvero si ritiene che questa sia la migliore attrezzatura che la comunità repubblicana può mettere in campo per affrontare le sfide dell'emigrazione, della globalizzazione, del multiculturalismo? La domanda è tanto più necessaria perché si fonda su un'acquisizione fondamentale dalla ricerca scientifica, troppo spesso dimenticata nel dibattito corrente: ovvero che l'«identità nazionale» (italiana, ma anche padana, irlandese, croata, rumena, o quel che si vuole) non è una condanna; non è un dato di natura; non è l'unico modo possibile, di concepire le comunità politiche; ma è, appunto, un modo artificiale, storicamente determinato, carico di specifiche narrazioni e di particolari gerarchie di valori. Per questo, invece di continuare a dibattere sul se la Repubblica abbia bisogno di un'identità nazionale forte, sarebbe piuttosto opportuno discutere sul se - in assoluto - abbia bisogno di un'identità «nazionale».